Il
Natale e la Fine dell’anno sono l’occasione tradizionale per scambiarsi gli
auguri. Recentemente mi è capitato di leggere il “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” (un breve
racconto scritto nel 1832, ambientato
per strada, in una città anonima), in cui Leopardi sostiene che “nessuno vorrebbe rinascere” se la
condizione fosse di “riavere la vita di
prima, con tutto il suo bene e il suo male”, perché “ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è
toccato, che il bene”. Alla fine il passeggere giunge alla conclusione che
la felicità consiste nell’attesa di qualcosa che non si conosce, nella speranza
di un futuro diverso e migliore del passato e del presente: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la
vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la
futura”.
In un passo dello “Zibaldone” (scritto nel 1827) Leopardi esprime lo stesso concetto: la felicità non è legata a qualcosa di reale che stiamo vivendo o abbiamo già vissuto, ma solo all’attesa, alla speranza di ciò che ci immaginiamo o ci illudiamo possa accadere: “Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l'ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti”.
In un passo dello “Zibaldone” (scritto nel 1827) Leopardi esprime lo stesso concetto: la felicità non è legata a qualcosa di reale che stiamo vivendo o abbiamo già vissuto, ma solo all’attesa, alla speranza di ciò che ci immaginiamo o ci illudiamo possa accadere: “Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l'ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti”.
“ove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola”. “La ginestra”, G.Leopardi. |
In
proposito, un altro poeta Pablo Neruda, ha scritto una poesia che inizia: “Ora, lasciatemi in pace” e termina “Lasciatemi solo con il giorno. Chiedo il
permesso di nascere”.
In
un’epoca di confusione, di rumori e di forti contrasti bisogna recuperare la
pace e la tranquillità per rinascere. Neruda sostiene che l’importante non è
nascere, ma rinascere: “Nascere non
basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno”.
È
questo il tempo di rinascere ogni giorno, proprio perché abbiamo tante cose da
fare e sono tutte urgenti. In questo tempo in cui si esalta la “perfezione”, il “bellissimo” e il “senza
difetti”; in cui si corre all’aumento del fatturato e dei profitti; in cui
si eliminano tutti i limiti e i confini; in cui si vuole “il tutto e subito”, e non conosce più la “pazienza” e “l’attesa”;
emerge la necessità di riconquistare la felicità nella consapevolezza di esseri fragili, incompiuti, imperfetti e limitati, cioè semplicemente umani ma
con un forte slancio verso un futuro
migliore.
Allora,
la felicità sta nella nostra capacità di sognare, di lottare, di conquistare un
miglioramento, cioè di “fiorire” in
mezzo alle difficoltà come fa “La
Ginestra”; in questa poesia Leopardi evoca questo fragile fiore (“la qual null’altro allegra arbor né fiore”)
che riesce a fiorire in mezzo al deserto (“Qui
su l’arida schiena”), invitando gli uomini a fare altrettanto (“odorata ginestra, contenta dei deserti”).
Dovrebbe
essere questo il senso vero degli auguri; dunque AUGURI.
Euro
Mazzi
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