A
Natale e a Capodanno (come in occasione di altre feste) è oramai diffusa consuetudine
scambiarsi gli auguri quale desiderio e/o speranza che le persone a cui li inviamo
ricevano del bene e/o siano felici o semplicemente capiscano una personale
vicinanza.
L’etimologia
della parola auguri richiama la
figura sacerdotale dell’antica Roma degli “àugures”
che avevano il compito di interpretare
la volontà degli dèi attraverso i segni
(fulmini, tuoni, volo degli uccelli, presagi funesti, interiora degli animali,
ecc.); questa interpretazione o divinazione del futuro era chiamata “auguri/auspici” e consisteva nell’approvazione o disapprovazione degli
dei rispetto alla decisione di fare un qualcosa (nell’ambito pubblico o in
quello privato, sia in pace che in guerra), un consiglio a cui occorreva
comunque sottomettersi per evitare la loro ira.
Gli
“àugures” possedevano, quale forma
distintiva della loro funzione sacerdotale,
un bastone ricurvo a forma di punto interrogativo (il lituo dal latino litàre =
offrire sacrifici agli dei per ottenere auspici favorevoli).
Sia l’Ebraismo, sia il Cristianesimo che l’Islam avevano escluso e, a volte, represso le pratiche divinatorie, considerate come forme pagane, anche perché facevano dipendere l’operato umano dagli “auguri/auspici”, una dipendenza negativa perché non responsabilizzava la persona di fronte a Dio e, pertanto, bisognava “liberarsi” dalla scusa di un operato dipendente unicamente dalla buona/cattiva “sorte” o dal favorevole/contrario “destino”; in proposito, basta ricordare questa profezia biblica: “voi non avrete più visioni vane e non praticherete più la divinazione; io libererò il mio popolo dalle vostre mani e voi conoscerete che io sono il Signore” (Ezechiele 13,23).
Sia l’Ebraismo, sia il Cristianesimo che l’Islam avevano escluso e, a volte, represso le pratiche divinatorie, considerate come forme pagane, anche perché facevano dipendere l’operato umano dagli “auguri/auspici”, una dipendenza negativa perché non responsabilizzava la persona di fronte a Dio e, pertanto, bisognava “liberarsi” dalla scusa di un operato dipendente unicamente dalla buona/cattiva “sorte” o dal favorevole/contrario “destino”; in proposito, basta ricordare questa profezia biblica: “voi non avrete più visioni vane e non praticherete più la divinazione; io libererò il mio popolo dalle vostre mani e voi conoscerete che io sono il Signore” (Ezechiele 13,23).
Con
il tempo queste pratiche divinatorie sono andate perse o sono rimaste professate
in nuclei ristretti e nascosti; oggi lo scambio degli auguri è diventato
diffuso universalmente ed è oramai privo dell’antico significato di consultazione sul volere degli dei;
oggi è solo un saluto o una vaga speranza che possa “andare bene”.
Infatti,
è con questo senso che vengono fatti gli auguri di un “buon anno” futuro sia a
capodanno che per un compleanno; gli auguri a volte si associano alle
congratulazioni per un avvenimento (buon voto, esame, laurea, lavoro,
promozione, ecc.) da cui fuoriesce un’aspettativa
futura.
E’
invece più problematico l’accostamento degli auguri alle feste religiose, poiché rischia di far prevalere
l’aspetto del “passare bene” la giornata di festa rispetto al significato della festa stessa.
In
tal senso, per esempio, il Natale è il ricordo della natività (“incarnazione”),
cioè del Dio apparso su questa terra nella carne dell’infante Gesù (Jeshu’a = Il Signore
salva),
dotato di normale umanità, per compiere la Sua opera fra gli uomini e
terminarla nella Pasqua, dopo la passione, la crocifissione e la resurrezione: “Nel principio era la Parola e la Parola era
con Dio, e la Parola era Dio (…) E la
Parola si è fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia
e di verità” (Giovanni 1,1-14).
La
diffusione dello scambio di “auguri”,
dunque, rientra nel più ampio fenomeno della secolarizzazione della società, in cui la festa religiosa di fatto
ha perduto il legame con il suo vero e reale significato, divenendo una ricorrenza, una tradizione, un
avvenimento folkloristico, ma soprattutto un’occasione
consumistica.
Già
Dietrich Bonhoeffer, nelle sue ultime lettere scritte nel carcere nazista pochi
mesi prima di morire, rifletteva su questo fenomeno di secolarizzazione della società come di un processo verso “l’autonomia del mondo”,
poiché l’uomo ha trovato risposte razionali, empiriche, immanenti, alle grandi
questioni, in tutti i settori della realtà: “Ciò che mi preoccupa continuamente è la questione di che cosa sia
veramente per noi, oggi, il cristianesimo, o anche chi sia Cristo (…) Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso; gli uomini, così come ormai
sono, semplicemente non possono più
essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente «religiosi»,
non lo mettono in pratica in nessun modo; presumibilmente, con «religioso» essi intendono qualcosa di completamente diverso
(…) Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche
volta per pigrizia mentale) è arrivata alla
fine o quando le forze umane vengono a mancare - e in effetti quello che
chiamano in campo è sempre il deus ex
machina, come soluzione fittizia a
problemi insolubili, oppure come
forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo
inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie
forze non spingono i limiti un pò più avanti, e il Dio inteso come deus ex machina non diventa superfluo” (lettera dal carcere
berlinese di Tegel del 30/4/1944).
Per
Bonhoeffer occorreva riscoprire il cristianesimo in termini “non
religiosi”, collocandolo al
centro (e non ai margini) dell’uomo, ripartendo dal messaggio evangelico
dell’impresa salvifica di Dio verso
l’uomo, nella sua dimensione
terrestre e storica rappresentata da una parte, dall’incarnazione e dalla corporeità del Cristo/lògos;
dall’altra, dalla Chiesa, quale
corpo storico di Cristo sulla terra: “Così
il nostro diventar adulti ci conduce
a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere
come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi, è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34 16)! (…) Dio si lascia cacciare fuori del mondo
sulla croce, Dio è impotente e
debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. E
assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo
non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza,
della sua sofferenza” (lettera dal carcere berlinese di Tegel del 16/7/1944).
La
buona notizia del Natale è che con Gesù “venne
nel mondo la luce vera, quella che
illumina ogni uomo” (Giovanni 1,9); il Dio che in Gesù si manifesta, è come
il medico che non è venuto per i sani ma per i malati, non per i giusti ma per
i peccatori (Matteo 9,13); si tratta di un messaggio
impegnativo e liberatorio, nulla
di consolatorio e conformista: “una pietra angolare, eletta e preziosa; e chiunque crede in lui
non sarà confuso (… mentre) per gli increduli (…) è una
pietra d’inciampo e un sasso d’intoppo: essi, infatti, essendo
disubbidienti, intoppano nella Parola” (Prima Epistola di Pietro 2,7-9).
Insomma,
occorre ritornare al significato/essenza,
cioè alla regola francescana del Vangelo “sine glossa = alla lettera”, senza commenti giustificatori e di comodo “Cioè: senza
calmanti! Il Vangelo va preso senza calmanti. Così hanno fatto i nostri
fondatori” (Papa Bergoglio 25/11/2016).
In
questo senso, AUGURI.
Euro
Mazzi
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